Le istruzioni sembrano semplici, ma è un attimo perdersi tra i capannoni della zona industriale di Vaiano. L’Opificio della Canapa è un po’ come l’isola che non c’è, se non ne conosci l’ubicazione è dura trovarlo. Ma una volta arrivati le cose si chiariscono subito.

Niccolò Corsi, laureando in Architettura, e Enrico Mariotti, laureato in Storia, hanno entrambi 27 anni e hanno creato l’Opificio il 6 novembre 2017, anche se l’idea era nell’aria già dai mesi precedenti. Erano partiti infatti da tutt’altro, con un’azienda agricola a Cecina, l’idea di colture lignee in quattro ettari di terreno e un progetto che riguardava lo zafferano, ma poi hanno deciso di spostarsi a Vaiano e dedicarsi alla coltivazione della canapa legale, ovvero la canapa con un livello di Thc non superiore allo 0,2%.

La prima sfida non è stata pianificare la nuova impresa, ma adattare lo spazio alla coltivazione della canapa: «Intorno al capannone i rovi erano alti fino alle finestre – spiegano – e solo per ripulire tutto ci è voluta una settimana. Poi abbiamo pulito l’interno dai mobili che c’erano rimasti e dalla polvere che si era accumulata. Abbiamo costruito tutto quanto da soli e avviato le prime serre. La coltivazione della canapa non finisce al momento del raccolto: le infiorescenze seccano negli essiccatori ventilati per una quindicina di giorni e riposano per altri quindici perché sprigionino gli aromi; a questo punto pesiamo, mettiamo nei barattoli, facciamo la confezione e sigilliamo con la ceralacca».

Tutto questo mentre il fenomeno della produzione e del consumo della canapa legale, la cosiddetta New Canapa Economy, esplode in Europa fino ad arrivare nel nostro paese trainata da distributori come EasyJoint che, sul loro sito, vendono dalle infiorescenze già pronte all’olio di CBD, sigla che sta per Cannabidiolo, un metabolita della cannabis: in pratica il prodotto finale dell’assimilazione della sostanza da parte dell’organismo con effetti rilassanti, anticonvulsionanti, antidistonici, antiossidanti e antinfiammatori, che favorisce il sonno ed è distensivo contro ansia e panico. Su EasyJoint si trovano anche i semi e le piante stesse, grazie alle aziende che coltivano indoor come l’Opificio della Canapa e molte altre ancora. Lo scorso mese di novembre, giusto per far un altro esempio di come della canapa si comincia a parlare sempre di più, si è tenuto alla Fortezza da Basso “Firenze Canapa”, una manifestazione che ha messo insieme più di cinquanta diversi produttori e rivenditori italiani attivi nei settori più disparati: dal campo alimentare a quello tessile fino a quello della bioedilizia.

Foto Valentina Ceccatelli

Anche i numeri sanciscono questa crescita. Coldiretti e Confagricoltura, in uno studio presentato al salone Seed&Chips di Milano e ripreso da Repubblica il 9 maggio 2018, descrivono il fenomeno “in oltre 4000 ettari coltivati a canapa, fra quella industriale e quella da infiorescenza”, che però non comprendono le coltivazioni indoor come quella dell’azienda pratese. “Nel 2013 – si legge ancora nell’articolo – erano solo 400, il che significa che nel giro di cinque anni gli ettari sono decuplicati, con un giro d’affari potenziale stimato in circa 40 milioni di euro. In Italia, in un anno, sono nate più di 200 aziende dedicate alla coltivazione della canapa e sono aperti più di 400 grow shop, i negozi dedicati ai consumatori e ai coltivatori di questa pianta”.

Facendo un passo indietro, l’Italia è stata uno dei maggiori produttori di canapa industriale nel mondo fino agli anni ‘40 del secolo scorso, seconda solo alla Russia, finché i tessuti sintetici prima e il proibizionismo poi hanno dato il colpo di grazia al mercato. Adesso, la riscoperta della canapa sembra ben più di un’ipotesi, e si ricomincia da zero. «A coltivare la canapa abbiamo imparato da soli, con i migliori manuali in commercio che, spesso, non si trovano nemmeno in italiano – spiegano infatti i due imprenditori pratesi – È difficile anche trovare maestri, in Italia: chi sa fare canapa per infiorescenza non si trova e, se c’è, condivide poco volentieri il suo sapere. Gli agronomi del nostro paese si intendono al massimo di canapa industriale, ma la canapa che coltiviamo all’Opificio è ancora, da un certo punto di vista, un oggetto misterioso. Il mercato in Italia è ancora giovane, attivo da un anno e mezzo – continuano Niccolò Corsi e Enrico Mariotti  – adesso siamo al terzo raccolto: i primi due ci sono serviti per capire come lavorare e come migliorare, e adesso siamo cresciuti sia qualitativamente che quantitativamente».

Un altro scoglio è stato il pregiudizio: «Quando abbiamo iniziato il boom non c’era ancora stato, quindi ci guardavano come fossimo spacciatori – raccontano – Inoltre anche le normative erano lacunose: non c’erano studi o precedenti che assicurassero che questo tipo di lavorazione si dovesse svolgere in questo modo, stesso discorso per capire quali autorizzazioni era necessario ottenere. Aprire una filatura è un discorso, fare canapa in un capannone in modo legale è un settore completamente nuovo». Nell’Opificio della Canapa crescono adesso un migliaio di piante, divise fra le varietà Finola ed Eletta Campana, che arrivano agli 80 centimetri di altezza in  ambiente creato per massimizzare l’infiorescenza. Vengono cresciute con la fibra di cocco, che aiuta a tenerle più basse, e tutto il ciclo di vita della pianta è rigorosamente biologico: niente pesticidi quindi, ma insetti che vanno letteralmente a caccia dei parassiti nocivi. Chi compra questo prodotto a Prato? «Si tratta, secondo i negozianti che si occupano di venderla al consumatore finale, di una fetta di popolazione compresa tra i 30 e i 60 anni: ci sono le eccezioni, ma la stragrande maggioranza è rappresentata da pratesi adulti», spiegano i titolari dell’Opificio della Canapa. Sono forse persone che ne facevano uso in precedenza e ora, con più responsabilità e una famiglia, vogliono mantenere gusto e aroma senza rischi né effetti psicotropi. I clienti dell’Opificio della Canapa sono invece soprattutto aziende: il loro prodotto finito, l’infiorescenza, si trova infatti come oggetto da collezione nei rivenditori pratesi e in quelli di altre città toscane come Firenze, Viareggio, Lucca e Pistoia, tra tabaccherie, grow shop e negozi di sigarette elettroniche. Qualche numero per avere un’idea? Secondo “Magica Italia”, guida pubblicata dalla rivista “Dolcevitaonline.it”, in Italia i grow shop sono 715 di cui 54 in Toscana. A Prato, per citare i più famosi, ci sono “Eko GrowSeed Shop” in via Pistoiese e il “CBD Point” di via Filicaia.

Gli effetti del consumo della cannabis legale sono noti: rilassamento, diminuzione dei disturbi del sonno, del mal di schiena e dei dolori mestruali, fra gli altri. Chi ha bisogno della cannabis per fini terapeutici, però, non usa le infiorescenze ma le gocce sublinguali di CBD con il 70, l’80% di principio attivo: la cannabis legale è quindi scollegata sia dalla terapia che dall’uso ricreativo come si intende comunemente. «Se la camomilla rilassa, questa rilassa molto di più – concludono dall’Opificio – l’effetto si sente, ma non è pesante. E come detto prima non è il ragazzino che la compra: il ragazzino non vuole la canapa con lo 0,2 di Thc, vuole quella più forte», annotazione che probabilmente lascia intendere che questo mercato riuscirà difficilmente a soppiantare quello illegale, visti anche i prezzi a cui i prodotti vengono venduti al pubblico: fino ai 45 euro a confezione. Ma questo non vuol dire  che la new canapa economy non abbia qualche effetto. In tutta Italia, negli ultimi tempi, succedono infatti cose poco piacevoli: dai negozi dati alle fiamme (Roma) a interi raccolti rubati (Brindisi), si susseguono episodi che lasciano intendere come la coltivazione della canapa possa dar fastidio a chi finora, e in modo illegale, ne ha fatto il proprio business. «Forestale e Carabinieri ci hanno consigliato di mettere un allarme e telecamere a circuito chiuso», aggiungono i titolari dell’Opificio della Canapa.

Un aspetto da non sottovalutare resta comunque l’analisi delle possibili conseguenze dell’uso della cannabis, soprattutto da parte dei consumatori più giovani: la teoria delle droghe di passaggio, che vuole la cannabis solo come il primo gradino che porta inevitabilmente alle droghe pesanti, è ancora radicata nel pensiero di molte persone, ma funziona in modo un po’ più articolato di come si pensi.

«Dipende tutto dallo stato d’animo individuale e personale – spiega Rosario Cutrì, direttore del Ser.D., il Servizio Dipendenze di Firenze – se qualcuno fuma perché lo aiuta a sentirsi bene trasforma la cannabis in automedicazione, e la seguirà in eterno. Se sono ansioso o agitato ne farò uso anche solo per sentirmi alla pari con gli altri. Se fumo perché per una sera mi va di farlo, gestire la situazione diventa molto più facile». Se un ragazzo fuma per tamponare un disagio, quindi, nascono i veri problemi: «Dopo un paio d’anni la cannabis non basta più, e spesso sono costretto a provare altro – continua Cutrì – questo potrebbe essere l’anello di passaggio alle droghe più pesanti. Dipende anche dal gruppo che incontri: se il leader del tuo gruppo fuma e tu rifiuti di farlo puoi sentirti escluso, o può essere il gruppo stesso ad escluderti. Hashish e cannabis non sono particolarmente pericolosi di per sé, ma è rischioso l’uso che se ne può fare in relazione all’età del consumatore e alla sua situazione».

La normativa del 2 dicembre 2016, la numero 242, (Disposizioni per la promozione della filiera agroindustriale della canapa) permette la coltivazione delle piante con sementi certificati che rientrino in un catalogo comune previsto a livello europeo, usato per mettere un freno a ibridi, incroci ed erbe svizzere, che abbiano un valore di THC che non superi lo 0,2% (anche se per il coltivatore non ci sono conseguenze fino allo 0,6) con i soli obblighi di distruggere le piante nel caso producano un quantitativo di THC troppo elevato e di conservare i cartellini delle sementi per 12 mesi. Il prodotto, però, deve essere venduto come “prodotto da collezione”, da non consumarsi per combustione. In pratica, la cannabis è utilizzabile per la realizzazione di cosmetici, materiali per la bioedilizia e bioingegneria, produzione di biomasse e florivivaismo e, strettamente regolamentato, per la realizzazione di prodotti alimentari. Insomma, è legale venderla ma chi la compra non potrebbe fumarla. È legale vendere cartine lunghe finché tutti fingono che servano a farsi lunghissime sigarette. In Italia funziona così. A confondere ancora di più le acque è stato un parere del Consiglio Superiore della Magistratura richiesto a febbraio 2018 dal Ministero della Salute, e arrivato nel giugno scorso: il CSM chiede la chiusura del mercato in quanto, come si legge, “non può essere esclusa la pericolosità di prodotti contenenti o costituiti da infiorescenze di canapa” perché “il consumo avviene al di là di ogni possibilità di monitoraggio e controllo della quantità effettivamente assunta”. Peccato che nel giro di un anno detto mercato sia esploso e che, come si può facilmente intuire, vietare di nuovo l’utilizzo della cannabis probabilmente non ne intaccherà l’uso ma servirà solo a reimmergere la richiesta nell’illegalità. Nel frattempo, il Canada è diventato il primo paese del G7 a legalizzare del tutto la canapa.

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